Shakespeare
Eh si, siamo fatti della stessa sostanza dei sogni. Siamo sostanza che a volte è leggera e a volte no. Siamo sostanza che crede nei sogni e non dovremmo smettere mai.
Siamo a giugno, fra poco inizieranno i Campus settimanali e sabato scorso si è concluso il percorso dei miei giovani chef presso l'Ateneo Italiano della Cucina COQUIS.
Abbiamo iniziato che il sole era basso, indossando un cappotto con il bavero alzato e con la luce che lambiva le acque del Tevere gonfio di pioggia e abbiamo finito con i raggi forti, un caldo da maniche corte e i riflessi dorati e roventi sulle banchine secche.
Sabato uno dei miei sogni si è avverato: il corso ABC giovani chef mi è stato affidato completamente, dalla scelta dei piatti al laboratorio stesso, tutto era nella mie mani. I miei otto ragazzi mi hanno stupito ancora una volta, sono stati veramente bravi. "La brigata"è stata all'altezza del compito.
Sono le dieci della mattina e iniziamo il laboratorio, mi ritrovo a guardarli con emozione, sono attenti alle mie spiegazioni ognuno di loro guarda le mie mani per carpire i passaggi della ricetta, le parole servono poco, loro vogliono memorizzare i gesti.
Mentre poi, nelle proprie postazioni, elaborano la ricetta, esprimono il loro modo di fare e di essere, c'è che è più veloce e chi ha bisogno di fare le cose con calma, chi si concentra talmente tanto da percepire appena la presenza del gruppo, c'è chi ride con il vicino e scambia battute simpatiche, ma tutti si danno da fare fino alla fine senza lasciare niente al caso. Questo è un laboratorio dove si fa davvero, non è un gioco, intendendo per gioco un falso del fare davvero, qui si cucina sul serio.
Sono adolescenti o poco più che bambini, hanno giocato fino a ieri al gioco simbolico, dove il simbolo sta al vero. Cioè, nel caso della cucina, hanno giocato con una cucinetta di plastica, piatti, bicchieri, posate e pentoline di plastica dai colori forti che non si rompono se cadono, ortaggi di plastica che non si sbucciano e non odorano di niente e non hanno un peso diverso tra di loro.
Mentre poi, nelle proprie postazioni, elaborano la ricetta, esprimono il loro modo di fare e di essere, c'è che è più veloce e chi ha bisogno di fare le cose con calma, chi si concentra talmente tanto da percepire appena la presenza del gruppo, c'è chi ride con il vicino e scambia battute simpatiche, ma tutti si danno da fare fino alla fine senza lasciare niente al caso. Questo è un laboratorio dove si fa davvero, non è un gioco, intendendo per gioco un falso del fare davvero, qui si cucina sul serio.
Sono adolescenti o poco più che bambini, hanno giocato fino a ieri al gioco simbolico, dove il simbolo sta al vero. Cioè, nel caso della cucina, hanno giocato con una cucinetta di plastica, piatti, bicchieri, posate e pentoline di plastica dai colori forti che non si rompono se cadono, ortaggi di plastica che non si sbucciano e non odorano di niente e non hanno un peso diverso tra di loro.
Ora sono in una cucina professionale, un'aula con sedici postazioni in una scuola che sforna cuochi e pasticceri che si faranno strada nel mondo della cucina a stelle. Questo li rende orgogliosi di stare li, in uno spazio che profuma di cibo buono, dove possono sperimentare le loro capacità e le loro potenzialità. Io sono con loro, li seguo, mi avvicino, li sostengo nella loro sperimentazione, sorrido e intervengo solo se necessario, lavoro al loro successo e al successo del loro piatto.
Ed qui che l'approccio pedagogico entra in gioco, essere capaci, come adulti, di non criticare, di correggere con dolcezza e di mostrare rispetto per il loro fare, per far si che la parola educare sia quello che la sua radice latina educĕre dice: tirar fuori ciò che sta dentro. Mi piace l'idea quindi che i ragazzi possano, attraverso questi laboratori, dare voce alla passione per la cucina e a tutte le passioni che si avvicenderanno nella loro vita.
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